Respira

Dalla leggenda del brazilian jiu jitsu Rickson Gracie, un affascinante memoir che intreccia la sua incredibile carriera, la storia della sua famiglia e il ruolo dei Gracie nella creazione dell’Ultimate Fighting Championship.
Una grande testimonianza del fatto che il legame tra mente e corpo può essere utilizzato per ottenere successo dentro e fuori dal ring.

Imbattuto dalla fine ne degli anni Settanta fino al suo ultimo incontro al Tokyo Dome nel 2000, Rickson Gracie ha ottenuto centinaia di vittorie ovunque, in strada, in spiaggia e sul ring. È uno dei più famosi lottatori di arti marziali del ventesimo secolo e per questo risiede nel pantheon insieme con Bruce Lee, Chuck Norris e Jackie Chan. Lui e la sua famiglia hanno contribuito allo sviluppo del brazilian jiu jitsu, ora molto di uso nel mondo, e hanno reso popolare il vale tudo, lo stile di combattimento in cui “tutto è concesso”, aprendo la strada al successo delle arti marziali miste. In Respira, per la prima volta Rickson rivela tutta la storia del clan dei Gracie, di come suo padre e suo zio hanno sviluppato il jiu jitsu, di cosa ha significato crescere in una famiglia di lottatori di fama internazionale, e i principi e le abilità che lo hanno portato al suo record imbattuto. Dall’imparare a farsi valere nelle turbolente strade di Rio a ottenere successo e onore in Giappone, fino al riemergere dopo una dolorosa tragedia personale, il grande maestro di arti marziali racconta le numerose sfide che ha superato nella vita, esaltando virtù universali e mostrando ai lettori che orgoglio ed ego sono nemici del successo. Con foto inedite e approfondimenti sulle arti marziali e sulle incredibili risorse dell’essere umano, Respira è una fonte di ispirazione per affrontare le difficoltà della vita e superarle con dignità e grazia attraverso il sacrificio e il rispetto di valori universali.

RICKSON GRACIE

Per quasi vent’anni, ha dominato il mondo del jiu jitsu come campione in entrambe le categorie, medio-massimi e open, e si è ritirato da imbattuto dopo centinaia di incontri. Ha lavorato molto per creare una comunità intorno a questa arte marziale e per diffondere quella della sua famiglia (il brazilian jiu jitsu), tenendo seminari in tutto il mondo. È in fase di lavorazione un documentario per Netflx sulla sua vita, Dead or Alive, diretto dal regista della serie tv Narcos, José Padilha.

PETER MAGUIRE è uno storico militare, investigatore di crimini di guerra, giornalista e scrittore. Da più di vent’anni è allievo e amico di Rickson Gracie, ed è coautore della sceneggiatura del documentario sulla sua vita, Dead or Alive.

Questo è di fatto quello che potete trovare in qualsisi sito più o meno tradotto, ma cosa penso di questo libro?

Prima di dirvelo, ecco qualche retroscena:

Sono stato contattato dalla gentilissima Veronica, responsabile Ufficio Stampa HarperCollins per ricevere questo libro in anteprima e preparare una recensione.

Inutile dire quanto mi abbia fatto piacere sapere che Italian Bjj fosse stata scelta per recensire un libro cosi iconico.

il giorno che è arrivato stentavo a crederci, per chi come me ha iniziato più o meno nei primi anni del 2000, Rickson rappresenta la massima espressione del Jiu Jitsu, scartandolo ne ho sentito tutto il peso.

All’epoca trovare libri tradotti era veramente impossibile e notare che dopo 16 anni (per me) la letteratura del BJJ apre le porte anche all’Italia non può che accrescere la mia felicità.

IMPERDIBILE

L’unico aggettivo che ritengo degno per questo libro.

Già dalla prefazione, ho sentito un brivido percorrere tutto il corpo, perchè solo chi ha provato il Jiu Jitsu sulla sua pelle sa che quello che sta leggendo è vero. 

E in quegli anni, la maggior parte l’ha conosciuto così, da scettico, da ignorante ed infine da iiluso, credendo di essere superiore a quella serie di movimenti che non lascia scampo a chi non lo conosce. 

Bellissimo.

Inoltre il libro è pieno di aneddoti che narrano le gesta, il mito e il lifestyle della famiglia Gracie. La mania dei nomi, la dieta, le prove di coraggio, lo spirito guerriero, l’approccio con i bambini, insomma un viaggio nel tempo e nello spirito di una famiglia e di un uomo che sono ed è un mito assoluto.

Prima di lasciarvi definitivamente, mi ha fatto riflettere un particolare di uno dei due iconici Maestri, che amava girare costantemente scalzo. 

Questa cosa oggi la vediamo fare nei social, ad altre due leggende del BJJ, ed ho pensato a quanto questa famiglia potessere essere già all’epoca avanti da ispirare oggi, così tante persone in tutto il mondo. 

Il libro potete trovarlo al seguente link: COMPRA SUBITO

Per gentile concessione ecco un estratto del libro: 

>>Quanto le cose stessero cambiando mi fu chiaro durante uno dei miei ultimi tornei importanti a Rio,
nel 1986. Fui sorpreso di vedere che Carlos Gracie Jr. aveva iscritto come suoi allievi i miei cugini
Rigan e Jean Jacques Machado. Non mi allenavo con i fratelli Machado da un po’, ma erano stati
anche miei allievi. Rigan era grosso e abile, una cintura nera che aveva vinto il campionato
brasiliano ogni anno e con ogni cintura. Come me, Rigan non perdeva una gara da quando aveva
quattordici anni. Rimasi ancora più sorpreso quando Carlos affermò che gli sponsor chiesero un
incontro tra me e mio cugino. Non gli credetti. Rigan era la prima cintura nera di Carlos e uno degli
astri nascenti della famiglia. Se mi avesse sconfitto sarebbe stato il nuovo re del jiu jitsu dei
Gracie. La storia dello sponsor era una cazzata. Carlos aveva messo la pulce nell’orecchio a
Rigan: «Immagina se vinci. Sarai il nuovo campione della famiglia».
Quando Carlos mi disse dell’incontro, gli risposi: «Carlos, stai facendo un errore a farmi lottare con
Rigan e rompere l’alleanza della famiglia per uno sponsor del cazzo». Era da un po’ che non mi
allenavo con i fratelli Machado; forse Rigan pensava che ora avrebbe potuto battermi, perciò
avvisai entrambi che se avessimo lottato non mi sarei risparmiato.
Quando ci affrontammo nella finale della categoria open, iniziammo a lottare e Rigan mi proiettò
con violenza sul tatami. Mi ripresi, lo ribaltai e continuammo a lottare intensamente. Avevamo
entrambi il piede schiac- ciato sull’acceleratore e sebbene mio cugino fosse più grosso sapevo che
non poteva mantenere il mio ritmo. Quando mancavano tre minuti era stremato dalla velocità e
dall’intensità, ed effettuai uno strangolamento. Dopo la lotta Rigan venne da me e mi disse:
«Combattere con te è stato il peggior errore della mia vita. Non lo farò mai più. L’ho fatto perché
me lo ha chiesto Carlos».
«Non c’è problema. Non pensiamoci più.»
Le lotte di potere nel jiu jitsu non mi interessavano, e avevo tre figli da mantenere. Volevo
combattere da professionista nel vale tudo e l’unico luogo in cui farlo al di fuori del Brasile era il
Giappone. Combattere in Giappone non era così semplice, poiché la yakuza, la potente
associazione criminale giapponese, era ampiamente in- filtrata in quasi tutte le organizzazioni che
promuovevano combattimenti. Ancora peggio, la maggior parte dei lottatori erano wrestler, e
benché fossero enormi, forti e abili, molti dei loro combattimenti erano truccati. E io mi rifiutavo di
fare incontri truccati. Andai in Giappone per la prima volta nel 1987 insieme con il mio amico e
consulente Sergio Zveiter, avevo una lettera di presentazione per Antonio Inoki, un ex wrestler che
nel 1976 aveva affrontato Muhammad Ali in un incontro di esibizione. Si era ormai ritirato dal ring
ed era diventato uno dei più potenti promoter di combattimenti del Giappone.
Anche prima di andarci, il Giappone aveva sempre fatto parte della mia vita. Il jiu jitsu è
giapponese, sapevo che mio zio lo aveva imparato da un lottatore giapponese, e avevo sentito del
combattimento di mio padre contro un altro lottatore giapponese. Non credo nelle coincidenze e
penso che il legame sia molto più profondo. Perché mio padre era il lottatore e il maestro di jiu jitsu
più illustre del Brasile? Perché generazione dopo generazione la mia famiglia ha imparato il jiu jitsu
e ha combattuto per dimostrarne l’efficienza e la superiorità? Quando ero un ragazzino facevo
addirittura dei sogni in cui parlavo giapponese fluente. Capivo quello che dicevo e ricordo anche di
avere avuto una discussione in uno di essi. Tuttavia, quando mi svegliavo a Rio, non capivo più la
lingua.
Inoki non mi incontrò subito, perciò mentre aspettavo esplorai Tokyo. Prima andai al Kōdōkan, la
scuola di Judo più famosa al mondo, per porgere i miei rispetti. Fu qui che l’ideatore e il fondatore
del judo, Jigarō Kanō, ebbe come allievo Hideyo Maeda, che a sua volta insegnò l’arte ai miei zii.
Sentivo di doverci andare, considerando quello che Maeda aveva fatto per la mia famiglia. Anche
se i maestri di judo del Kōdōkan mi accolsero a braccia aperte, quando gli dissi che mi trovavo in
Giappone per organizzare un incontro professionistico, mi dissero in maniera educata che non
potevo allenarmi lì. Jigarō Kanō non permetteva combattimenti con premi in denaro. Dopo molta
attesa e anche molte formalità, Inoki si rifiutò di incontrarmi. Alla fine la sua organizzazione voleva
che fossi uno dei loro lottatori fissi, come un wrestler. Probabilmente a lui sembravo l’ennesimo
lottatore sconosciuto in cerca di una grande occasione. Anche se il viaggio sembrò una perdita di
tempo, mi insegnò cose sul Giappone che mi avrebbero aiutato negli anni a venire.
Per prima cosa imparai quanto fosse strutturata la società e come le regole e le gerarchie fossero
rispettate più di qualunque altra cosa. Come seconda cosa imparai l’importanza dell’obbedienza
incondizionata. Il numero due non contestava mai il numero uno, non importava quanto si
sbagliasse. Per me seguire qualcuno sapendo che sbagliava, andava oltre una questione di onore;

era solo obbedienza cieca. Ciò mi fece anche rivalutare la mia visione dei samurai. Secondo il loro
codice del bushidō (la via del guerriero), onore e lealtà erano più importanti della ricchezza, della
vita e della famiglia. Sul campo di battaglia i samurai possedevano lealtà assoluta e coraggio, ed
erano grandi guerrieri, ma non combattevano per loro stessi. I samurai erano servitori dal primo
all’ultimo giorno, poiché l’onore li obbligava a rimanere con il loro signore. La parola samurai
significa “colui che serve” e i suoi unici sogni e le sue uniche ambizioni dovevano essere solo
quelle del suo shōgun.
Poiché non ero riuscito a procurarmi un combattimento in Giappone, tornai in Brasile e mio padre
iniziò a provare a farmi trasferire in California per aiutare Rorion a promuovere il nostro jiu jitsu:
sosteneva che Rorion aveva bisogno dei migliori Gracie per quella missione. Per me andava bene,
ma non volevo lasciare la mia famiglia. A casa ci fu ancora più tensione quando Kim rimase incinta
del nostro quarto bambino. Fu una gravidanza molto difficile; dovette rimanere a letto per la
maggior parte del tempo, o avrebbe rischiato di perderlo. Un giorno Kim sbottò, e tutto il suo
risentimento verso di me e la rabbia per la sua situazione traboccarono. Dopo che a caldo mi
rivolse parole dure, dissi: «Se non sei felice con me qui, vado a vivere a casa del mio amico.
Passerò a trovare i bambini e ti darò tutto il supporto di cui hai bisogno».
Anche se avevo riacquistato la mia libertà, ora che avevo dei figli non era come prima. Quando
nacque il mio secondo figlio maschio, Kron, io e Kim eravamo ancora separati. Kron era un
bambino calmo, del tutto diverso da Rockson. Rideva sempre e aveva un gran bel senso
dell’umorismo. Lo chiamavamo bozinho, che in portoghese significa “uno buono”. Le ragazze lo
ricoprivano di affetto, ma Kim era convintissima che il mio rapporto con lui non sarebbe stato come
quello con Rockson. Anche a sette anni, Rockson era il mio braccio destro e mi seguiva ovunque.
Era già intenzionato a diventare un Gracie e un lottatore.
Una volta che la gente sentì che me ne andavo in America, iniziò a circolare la voce che Marco
Ruas, uno dei migliori lottatori di luta livre (che sarebbe diventato un campione ufc), voleva
combattere con me. Non potevo sfidarlo ufficialmente perché ero il campione e un nome affermato,
mentre Ruas aveva solo combattuto con un mio allievo e pareggiato. Anche se non volevo sfidarlo,
dovevo dimostrare che ero disposto a combattere con lui in qual- siasi momento e dovunque.
Una sera mio padre, Marcelo Behring, Sergio Zveiter e io guidammo fino all’accademia di luta livre.
Entrammo e venti o trenta lottatori smisero di allenarsi e ci fissarono. Marco Ruas ci venne
incontro e ci salutò. Eravamo tutti rispettosi… all’inizio. Dissi a Ruas che avevo sentito che voleva
combattere con me, e io ero lì per quello. Disse che voleva combattere, ma avrebbe avuto bisogno
di quattro mesi per prepararsi. Questo mi fece capire che era più interessato a farsi pubblicità con
il combattimento piuttosto che a mettersi alla prova, e mi fece incazzare. Ero io quello che era
entrato nella tana del leone, pronto a combattere per nient’altro che l’onore! La situazione iniziò a
scaldarsi e mio padre si mise tra di noi per placare gli animi.
Hélio propose di organizzarci con una lista, così avrei potuto affrontare tutti i miei sfidanti in un
giorno solo… Gli risposi stizzito che non si trattava di una lotteria di strada. La situazione continuò
a peggiorare mentre la tensione aumentava, e io dissi loro di contattarci quando fossero stati pronti
a combattere. Proprio mentre ce ne andavamo, Hugo Duarte, uno sconosciuto all’epoca, che stava
dietro a Ruas, disse: «Ci puoi mettere me in cima a quella lista!». Potevo vedere nei suoi occhi che
voleva combattere con me, che era serio.<<

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